L’estetica dei luoghi comuni

È da un po’ che rimugino qualcosa, solo che fin tanto che si rimugina senza dirlo a nessuno, il rimuginare fermenta, rischia di irrancidire perfino. Poi, l’altro giorno, mentre non riuscivo a dormire su un letto nuovo, mi è venuto in mente che avevo un blog. Ora, se i blog erano già in fase calante nel 2016, data dell’ultimo post, nel 2023 sono nella migliore delle ipotesi modernariato. I pochi che ancora si leggono hanno avuto successo prima che i social facessero terra bruciata di qualsiasi contenuto dietro di loro. Ma in fondo, mi sono detto, non è certo il grande pubblico che mi aspetto, e aprendo le statistiche del blog ho comunque scoperto che, incredibilmente, qualcuno ci viene ancora qui, ogni tanto. Non cerco nulla di più, e poi ho comunque un po’ la curiosità di sapere se a qualcuno arriverà una notifica, polverosa, per email o su qualche lettore RSS dimenticato, un po’ come ricevere una cartolina.

Come nella più antica tradizione di questo blog, ci vuole una citazione per iniziare.

“Una volta, qui, era tutta campagna.

L’emigrante, quando torna in patria, nota molte differenze, che non saltano all’occhio di chi è rimasto a casa. Può essere il modo di parlare che cambia, il paesaggio urbano, la musica o la tv. A volte questi cambiamenti sono reali, ma sfuggono a chi li ha visti evolvere piano piano, altre volte saltano all’occhio solo perché la nostra prospettiva è cambiata, molto più della realtà delle cose.

Di recente sono stato in Sardegna, e mi ha colpito quanto le automobili fossero presenti e invadenti ovunque. Nei centri storici come nei parchi naturali, al mare, in montagna, in città. Pensavo fosse solo un’impressione, dovuta più che altro alla differenza con la Svizzera dove, seppur con molti limiti, fare qualcosa in bici, in bus o in treno, invece che in auto, è perfettamente normale e non si porta dietro tutto quel bagaglio di implicazioni politiche che in Italia paiono circondare i mezzi di trasporto. Poi, pensandoci meglio, però, mi sono reso conto che no, non era un’impressione, le cose sono cambiate, davvero.

L’auto in Italia, si sa, è la principale zona erogena secondaria, ma la sua presenza è diventata oggi totalmente pervasiva. Mentre le zone pedonali nascevano nei centri storici, vere e proprie riserve indiane, tutto quello che ne restava fuori diventava sempre più dominio dell’automobile, non solamente in termini di spazi fisici occupati, ma anche e forse soprattutto in termini di spazio mentale. Fare le cose in auto è diventata prima di tutto una necessità, col proliferare dei centri commerciali e la chiusura dei piccoli esercizi, la rarefazione dei servizi e le eterne carenze dei trasporti pubblici. Poi è diventata la normalità, e l’unica realtà possibile, per portare i bambini a scuola, fare le spese, andare dal medico, in piscina, a sciare, al mare, in posta,… C’è tutto un moralismo che circonda l’uso, o meno, dell’automobile, da cui spero di essere indenne, ma a me l’auto piace in ogni caso molto poco. Mi piace poco viaggiarci dentro, e credo anche che le auto rendano i luoghi in cui viviamo più brutti, meno umani.

Me ne sono reso conto pensando soprattutto al Friuli e, per arrivare al punto, ho pensato che volevo documentare come è cambiata una strada che, mio malgrado, conosco bene. La strada, nello specifico, è quella percorsa dal bus A.T.A.P. sulla tratta Spilimbergo – Udine, che ho preso avanti e indietro per cinque anni, coltivando così il mio odio viscerale per il pendolarismo. Se perdo tempo a parlare di come è cambiata quella strada non è per azzardare analisi approfondite, è solo per documentare il mio fastidio, perché resti scritto, in pubblico, e prenda aria invece che restare a marcire. Sono in fondo un ottimista: magari qualcuno viene davvero qui a leggere, magari un giorno farà pensare qualcuno. E se non posso cambiare il reale, almeno voglio poter dire che non sono d’accordo.

Guardiamo al presente, pensando a com’era nel 1999.

Il bus lo si prende in una stazione dei treni, dove i binari sono stati coperti d’asfalto, e già questo è tutto un programma. All’epoca, come direbbe mio figlio, i gazebo non c’erano, ma penso fosse ancora aperto una sorta di bar-edicola nell’edificio della stazione, che ora pare invece irrimediabilmente abbandonato.

Poche centinaia di metri dopo si passa di fianco a quella che è, se non mi sbaglio, una filanda abbandonata. Penso che mia nonna ci abbia lavorato, in qualche momento della sua vita. La grande area, adiacente al centro del paese, è abbandonata fin da quando io ricordi. Decade lentamente, gli hanno tolto qualche pezzo che iniziava a crollare troppo, ma è sempre là.

E qui, appena fuori dal paese, poco dopo la grande filanda abbandonata, si completa già la collezione di tutto quello si può sbagliare. ll resto sarà solo un ripetersi. Iniziamo dal fondo a destra, dove si intravede un capannone bianco. Era un grande concessionario di automobili, ora suddiviso in vari esercizi commerciali. C’è ora un immenso piazzale semivuoto, un tempo coperto di auto in attesa di acquirente. Per non rovinare questo piazzale, una serie di capannoni è stata costruita a fianco, più a sinistra, dove c’erano invece dei campi, come ogni luogo che si rispetti, in Friuli. Per inciso, non credo che i nuovi capannoni li abbiano messi per cattiveria o per stupidità: se sull’austero continente €uropeo gli enti locali possono finanziarsi solo facendo coprire di cemento terreni un tempo verdi, poi non ci si può stupire di queste cose.

Ora al posto del campo di pannocchie c’è un supermercato e una di quelle insopportabili mega-ferramenta dove c’è di tutto, anche se nessuno lo trova, e in ogni caso quando lo si trova non era davvero quello che si cercava. Una volta la ferramenta era nel centro storico, poi l’hanno chiusa perché non pagavano una lira di tasse, ora ci sono questi, che sono sicuro che sono onesti. Di supermercati ce n’erano ovviamente già più di uno, perfino in centro. Dopo che hanno aperto questo un altro ha chiuso, lasciando vuoto il corrispondente capannone, che non vedremo in questo percorso, oggi. E poi c’è un bar. Frequentatissimo, anche grazie all’ampio parcheggio, così si può prendere l’auto non solo per fare le spese, ma anche per abbruttirsi con gli amici, senza nemmeno dover cambiare parcheggio. I bar in paese ci sono ancora, per fortuna, spesso sono ancora dei bei posti.

Poi c’è un ponte, sopra un fiume che sa essere molto bello. Il ponte ha cento anni, per ora sta ancora in piedi, ma quando piove molto lo devono chiudere. Ho timore di cosa faranno, quando lo dovranno rimpiazzare.

Poi si entra a Dignano, si carica gente sulla corriera, si passa in mezzo alle case, a pochi centimetri dalle finestre. Ora hanno costruito una tangenziale ma solo i camion la devono prendere, il traffico in paese è lo stesso di 25 anni fa o forse peggio, alle auto conviene comunque passare di qui, il limite di 30 è solo un cartello.

Poi si esce dal paese, e la blava (mais) la fa finalmente da padrone, noi ci sentiamo a casa veramente solo qui.

Solo, uno potrebbe chiedersi cosa sia quella cosa là in fondo… cosa ci fa un distributore in mezzo ai campi? Anzi, per la precisione, la domanda è come cazzo si è potuto costruire un distributore in mezzo ai campi? non è nemmeno abusivo! È stato il primo, avremmo dovuto capirlo che, citando Altan, “quando tuona a monte culo il primo scroscio è merda”, e invece nessuno ci ha fatto caso, quando è apparso.

Si entra a Cisterna, paese che consiglio di visitare a tutti quelli che passano nei dintorni, si possono imparare delle cose. Qui non vedo grandi cambiamenti, ma resta un’occasione unica di ammirare un raro esempio di barocco friulano con le sue colonne tortili.

Poco dopo il paese c’è una lunga riga di capannoni. Questi sono dell’epoca classica, quando ancora si costruivano capannoni per metterci dentro delle fabbriche, a volte perfino per costruirci delle cose utili o belle. Incredibilmente, li vedo ancora per la maggior parte occupati. Laggiù in fondo, in quel capannone verde, c’è un altro di quei bar con ampio parcheggio, apparso ad un certo momento che non ricordo di preciso. Ci sono capitato per caso una sola volta, circa vent’anni fa, c’erano le ballerine seminude che facevano pole-dance, e un sacco di stanze al piano di sotto, così, senza preavviso. Sicuro però pagavano le tasse anche loro, quindi bene. Non ho idea di cosa ci facciano dentro oggi.

Poi si scende in un vallone un po’ strano. Se la memoria non mi inganna, si tratta dell’antico alveo del fiume che abbiamo attraversato prima. È un posto molto verde, tra immancabili campi di blava e boschetti, e un bellissimo distributore di benzina. Con un po’ di sforzo lo vedete, in fondo a destra. Quando hanno costruito questo, era ormai chiaro che si trattava di un piano, che si trattava di abbruttire sistematicamente tutti quegli spazi aperti che restavano tra un paese e l’altro, di trasformare luoghi diversi in un unico grande non-luogo, identico a tutte le altre periferie del mondo. Era però troppo tardi.

Facciamo qualche altro chilometro, e ormai siamo in città. Non la vera città, che sarebbe Udine, non Detroit, ma un paese qualsiasi, nella fattispecie Fagagna, che sarebbe anche un posto carino, verso il centro, in collina. I capannoni iniziano ad essere una sequenza ininterrotta, prima solo da un lato, poco dopo da entrambi.

E non serve nemmeno più mettere altre foto, perché le foto potrebbero venire da ovunque, con gli stessi marchi, gli stessi colori, lo stesso decoro in bilico tra scintillio e decadenza. I capannoni, un tempo sparsi, si sono propagati come un virus, senza giustificazione chiara, dato che la popolazione non è né cresciuta né si è arricchita significativamente, in questi venti anni. Si sono moltiplicati solo nell’ipotesi, puro marketing, che fosse una buona idea ingrandire i negozi e metterli fuori città, per renderli più convenienti, perché “l’efficienza e le economie di scala”, che sono alla fin fine pagar meno la gente e meno gente e se poi improvvisamente nessuno guadagna abbastanza per comprare niente che non sia paccottiglia tanto ci sono i turisti tedeschi con i loro soldoni… È questa l’estetica dei luoghi comuni italiani. I luoghi comuni che hanno popolato e popolano i mezzi di comunicazione come le chiacchiere nei bar: sull’economia, sulle tasse e la corruzione, sulla politica e sulla geopolitica. L’importante è non pensare e tirare avanti, tra un’emergenza e l’altra, continuando rigorosamente a fare quello che ci dicono mentre fingiamo di fare quello che ci pare.

Se si continua abbastanza, sul bus, si arriva nel futuro. Prima di entrare a Udine la strada principale è stata deviata, credo una decina di anni fa. Il percorso del bus, sulla vecchia statale, è ormai secondario, e i capannoni, come le rose, sfioriscono già. Almeno è cresciuto qualche albero.

Tirando le fila

Come ho detto all’inizio, il mio obiettivo non è di fare analisi, sono infantile, voglio solo poter dire “VE L’AVEVO DETTO”. Volevo documentare, in un piccolo spaccato, come è cambiato un angolino di mondo, del tutto trascurabile, almeno se non ci abiti, anche in risposta alla strana idea che spostarsi in uno scatolone di metallo su quattro ruote sia sempre una libertà, mentre è spesso solo una necessità, imposta per motivi assai dubbi. Io in Olanda ci ho abitato 7 anni, e perciò non credo che potersi spostare in bicicletta ovunque, non doversi far spazio tra le auto in città o poter fare facilmente a meno dell’auto nella propria vita quotidiana, rendano un paese più giusto, e nemmeno necessariamente più piacevole. Penso però che l’Italia sia ammalata di automobile, oltre che di altre cose ben più gravi. Oltre ai danni economici o ecologici a cui questo può portare, penso che questa malattia, tra tante altre, aiuti a sfilacciare una comunità, a obbligare tutti a chiudersi sempre da qualche parte, senza poter mai essere semplicemente assieme, senza una ragione precisa. A me, in città, continua a piacere soprattutto girarci a piedi.

Post-scriptum

Credo che gli esperti di comunicazione evidenzino la necessità di una comunicazione concisa e dritta al punto, quindi penso sia una buona idea allungare ancora un po’ questo articolo. In effetti, l’idea di scrivere tutta questa roba mi è venuta in mente l’altro giorno, come dicevo sopra. Solo che in un’altra forma l’avevo già scritta parecchio tempo prima, e quella forma è la seguente.

La biennale di Venezia e la periferia di Milano

In Lombardia ci sono sicuramente molti luoghi splendidi, ma tra di essi non c’è la periferia nord di Milano.
La mia conoscenza a riguardo è, sia chiaro, del tutto superficiale, e si limita alla triste litania salmodiata dal finestrino del treno, o più raramente dell’auto, arrivando a Milano da nord, o in senso inverso. Anonimi condomini, cadenti, si succedono a fabbriche abbandonate, depositi di combustibile, centri commerciali nati già vecchi e centri di smistamento delle merci all’apparenza sempre immobili. Le rare zone verdi sono perlopiù sterpaglie cresciute dove l’uomo ha momentaneamente lasciato la presa. Si vedono a tratti edifici più recenti. A volte si impongono coprendo l’orizzonte, un grande ospedale, il quartiere fieristico. A volte si intravedono soltanto, oltre i primi edifici squallidi che circondano i binari, qualche tetto moderno, alcuni perfino hanno uno stile eccentrico, con forme curve quasi barocche.

L’accozzaglia di colori e forme non lascia scampo all’occhio, nulla è bellezza, e il raro ordine ha l’aridità cartesiana del container o del vetro e acciaio. Solo scavando nella storia dei luoghi un archeologo potrebbe dare un senso al caos, all’accostamento imprevisto e sgradevole, ma accettato senza ripensamenti. Quella storia, però, avrebbe lo stesso rumore del panorama, la stessa mancanza di un senso che vada oltre la necessità del momento, a volte del futile. L’altro giorno ci passavo un’altra volta, e tutto sembrava uguale a sempre, immobile come tutto, quando lo si guarda dal treno. Eppure, a tratti, mi pareva di riconoscere qualcosa, mi pareva quasi ci fosse qualcosa da guardare, oltre il vetro, e all’improvviso ho capito.

Il giorno prima soltanto, a Venezia, ci aveva colpito un’opera esposta sulla parete di un grande palazzo, vicino Santa Fosca. Un’opera di qualche collaterale della biennale d’arte che iniziava quei giorni. Attaccata a cavallo di due terrazzini, da un’asta bianca pendevano oggetti disparati: un barile blu verso il centro, uno straccio giallo ad una estremità, assieme ad altro che non ricordo. Sgraziata e incomprensibile, stava appiccicata al bel palazzo neoclassico, non diceva altro al passante che “sono qui'”, senza sapere perché né come. E ricordando quell’opera ho capito allora che l’estetica della periferia nord di Milano è l’estetica dell’arte post-moderna, e l’estetica post-moderna è quella della periferia. La rinuncia ad ogni aspirazione elevata a metodo, la sciatteria che si giustifica a posteriori, sono le stesse. Come il senso della periferia è la contingenza elevata a necessità, così l’arte si giustifica solo nelle elucubrazioni dell’autore, riassunte nell’immancabile dépliant, o magari tenute nascoste per garantirne a maggior ragione lo spessore. Solo il critico interessato, magari solo alla percentuale per rifarsi il bagno, sa tradurre l’accostamento arbitrario in una profonda riflessione dell’autore e sull’autore. Le opere, nate già vecchie come un palazzo accanto alla ferrovia, saranno lo sfondo di un’epoca decadente che ha rinunciato a capirsi.

E per finire, una foto.

Aggiornato l’8 novembre.

Confini #2

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Come un po’ tutto ciò che è ubiquitario, i confini non sono né intrinsecamente buoni, né intrinsecamente cattivi. Ultimamente, però, i confini non vanno di moda. Qui si cerca di riequilibrare la bilancia, ben coscienti di svuotare il mare con un cucchiaino. Sapendo, però, che in tempi bui ripetere l’ovvio è rivoluzionario, si vuole qui dire che non c’è casa senza mura, mare senza battigia, essere umano senza pelle. Come stiamo imparando a nostre spese, senza confini c’è solo una grande prigione.


 

Provo a raccogliere qui una serie di foto a tema “confini”. Il filo conduttore vuole essere la constatazione di due fatti: che i confini sono ovunque, e che dove c’è un confine, c’è una porta che lo attraversa. I confini non sono solo politici, ma sociali, economici, culturali, temporali e anche, o forse soprattutto, naturali. Non vi è qui pretesa di esaustività, e anzi la mia preferenza per la natura e l’acqua sarà evidente. Come altri hanno detto prima e meglio, studiare la natura ci insegna innazitutto qualcosa su noi stessi.

Confini (elogio dei)

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Un’idea sciocca incanta l’Occidente: l’umanità, che sta andando male, andrà meglio senza frontiere. D’altronde, aggiunge Flaubert nel suo Dizionario dei luoghi comuni, la democrazia ci porta diritto in un mondo senza fuori né dentro. Nessun problema. Guardate Berlino: c’era un muro, adesso non c’è più. Prova evidente che Internet, i paradisi fiscali, i cyberattacchi, le nubi vulcaniche e l’effetto serra stanno spedendo all’ecomuseo le nostre vecchie transenne bianche e rosse, insieme con l’aratro di legno, la bourrée auvergnate e il cucù svizzero. Tutti coloro che, nel nostro piccolo promontorio di Asia, godono di un posto al sole – giornalisti, medici, calciatori, banchieri, clown, coach, avvocati d’affari, veterinari – esibiscono il distintivo senza frontiere. Alle professioni e alle associazioni, che sul loro biglietto da visita dimenticano questa sorta di Apriti Sesamo verso ogni simpatia e sovvenzione, non si dà alcuna importanza. Doganieri senza frontiere è cosa di domani.
Se il miraggio fosse tonificante, tanto da smuoverci il sangue, da spingerci in marcia di buon mattino e di buona lena, allora dovremmo concedere il nostro consenso a cuor leggero. Fra una sciocchezza che dà respiro e una verità che soffoca non si può esitare. Il fatto che da centinaia di migliaia di anni seppelliamo i nostri cari con l’idea che presto potranno ritrovarsi in paradiso è la prova inconfutabile di come una consolante illusione non si rifiuta mai. Per opporsi al Nulla, il genere umano ha fatto sempre la scelta più comoda: quella dell’illusione. Se dobbiamo ribellarci a essa è perché, con i suoi modi scanzonati e un po’ da scout, libertari e un po’ evangelici, promette una boccata d’aria fresca, ma poi garantisce soltanto un rifugio da topi.

Régis Debray

Sententiae Recentiores: “Be a Philosopher…”

SENTENTIAE ANTIQUAE

“We must always take care that we do not become so devoted to one branch of learning that we neglect the others, nor should we, by applying ourselves too closely to natural science neglect the study of morals or the business of everyday life.”

Semper autem cavendum est, nec, si uni iungamur arti, ut reliquas negligamus, neve naturalibus inhaerentes studiis ac contemplationibus, quae moralia sunt postponamus et rebus abducamur agendis.

-Aeneas Silvius Piccolomini, de Liberorum Educatione, chp. 94

This sentiment is echoed in David Hume’s Enquiry Concerning Human Understanding, section 1:

“Be a philosopher; but, amidst all your philosophy, be still a man.”

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No Poem Without a Penis: Martial 1.35

Come Frank Zappa.

SENTENTIAE ANTIQUAE

“Cornelius, you complain that I write poems which are not serious enough, and which a teacher would not read in school: but my poems, just like a husband with his wife, cannot please without a penis. Would you have me write a wedding song without mentioning a wedding? Who would require clothes at the Floralia, or would put a long dress on a whore? This is the rule with funny poems: they are no good unless they have something a bit licentious. So put away your serious glare and please, cut my games and jokes a little slack, and don’t cut the balls off my books. There is nothing uglier than a castrated Priapus.”

Versus scribere me parum seueros
nec quos praelegat in schola magister,
Corneli, quereris: sed hi libelli,
tamquam coniugibus suis mariti,
non possunt sine mentula placere.              5
Quid si me iubeas thalassionem
uerbis dicere non thalassionis?
quis Floralia…

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Davvero le facoltà umanistiche sono un pessimo investimento?

Splendido commento alle farneticazioni sul Falso Quotidiano (cit.), a riguardo della presuntà bontà o meno delle facoltà umanisitiche come investimento economico.

Il nuovo mondo di Galatea

Davvero le facoltà umanistiche sono un pessimo investimento?

C’è da dubitarne, visto che un editorialista laureato alla Bocconi scrive un pezzo senza analizzare esattamente i dati di uno studio scientifico sulle scelte dei ragazzi per iscriversi all’Università, e due umanisti come Angelo Romano ed io siamo costretti a fare un po’ di chiarezza… su Valigia Blu, oggi.

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